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Rapporti dai workshop

I° Gruppo:

Proposta di  modifica del comma B  dell’Art. 6 

della Legge n. 194 del 22 Maggio 1978

Relatrice: Emilia Napolitano

Osservatore partecipante: Francesca Panuccio

 

   La proposta di modifica che si è affacciata alla mente o per meglio dire al cuore di noi persone disabili all’interno del Movimento Nazionale di DPI Italia non è dettata da nessun credo politico e non va confusa con le prese di posizione di nessun partito, né tanto meno vuole essere un ennesimo invito alla riflessione dal carattere cattolico per l’abolizione della legge “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”.

   Peraltro, riconosciamo ampiamente il valore e l’importanza che tale legge ha avuto nel corso dell’emancipazione della donna, alla quale è stata in questo modo affidata la responsabilità primaria, la scelta e la decisione di diventare madre, nel rispetto delle possibilità di realizzare la propria persona anche all’interno di altri contesti (sociale, lavorativo, politico,ecc.).

   La proposta di modifica in questione, dicevamo, nasce semplicemente dalla nostra esperienza di vita e dalla consapevolezza, maturata col tempo, che la disabilità non è una sventura dal significato assolutamente negativo, ma una “lente di ingrandimento attraverso cui è stato possibile osservare la vita nelle sue trame più fitte”, affinando notevolmente la capacità di sentire e di percepire le realtà vissute nei loro molteplici aspetti.

   Credo che la cultura cui apparteniamo ci abbia indotto a pensare alla  disabiltà in un modo molto riduttivo, cioè come ad un fatto puramente fisico, organico,  ad uno stato di malattia, che ha giustificato nel tempo l’atteggiamento medico teso unicamente a curare e a riabilitare le persone, come se queste non avessero altri bisogni se non quello di guarire.

   Quando leggo l’Art. 6 della legge 194, e specificamente il comma B, che recita :

“L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:

a) …………………………………………………………………………………………………………………………………………………

b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”, scorgo in esso il seme di quel meccanismo di discriminazione dal quale quotidianamente mi devo difendere nelle varie aree della mia vita .

   In altre parole, tale comma afferma che se un feto presenta un’anomalia o una malformazione quando nascerà sarà un neonato e poi un bambino “diverso”  perché non risponderà ai canoni di efficienza, perfezione e bellezza della società in cui vivrà, per cui è meglio abortirlo, eliminarlo dal corpo della madre, dal corpo della famiglia, dal corpo della società.

   Inoltre, da una lettura attenta dell’articolo, è evidente come le parole scritte in esso  esprimono un preciso pensiero!

   Anomalia e malformazione: perché il legislatore ha usato questi termini? Molto probabilmente perché durante la stesura della legge si pensava, riferendosi al bambino prima e all’adulto disabile dopo, a qualcosa di imperfetto che disturba l’equilibrio di una umanità, di una società fatte di essere umani “perfetti”.

   La definizione  di “rilevante anomalia o malformazione” (bruttissime parole entrambi, legate al concetto di perfezione) è un elemento negativo della legge : é palese che la perfezione in natura non esiste!

   Lo stesso termine “rilevante” è sicuramente soggetto a interpretazioni: chi può stabilire cosa è più o meno rilevante. La distrofia è rilevante? Le malformazioni della mandibola anche? La anemia mediterranea? La mancanza di un padiglione dell’orecchio?  La cecità? La sindrome di Down?  E così via.

   Per finire, poi,  è molto discutibile il fatto che tali processi patologici “determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica” della futura madre, se penso agli eventuali problemi cui può andare incontro una  donna nell’educazione del proprio figlio che, in preda ad altri tipi di difficoltà,  cerca le risposte alla sua vita nella droga, nell’alcool, nella delinquenza, ecc.

   Ecco perché la rivendicazione n.7 della “Dichiarazione di orientamento di DPI Europa su Bioetica e Diritti Umani”, alla cui stesura l’Italia ha partecipato al fianco di Francia, Portogallo, Spagna e Regno Unito, ha una sua ragion d’essere.

   La rivendicazione che recita “La legislazione sia emendata per porre fine alla discriminazione fondata sulla disabilità quale eccezionale terreno legale per l’aborto” costituisce una sollecitazione a non fare della disabilità  una condizione che renda  lecito l’uso dell’aborto quale strumento per progettare la vita umana nell’ottica di un’eugenetica, tesa al miglioramento della specie e garantendo esistenze preprogrammate attraverso la  manipolazione dei geni.

   Con la proposta di modifica del comma B, chiediamo che la preoccupazione etica di medici, giuristi, legislatori, ecc. di salvaguardare la vita umana dopo i primi novanta giorni di gestazione sia rivolta e sentita anche nei confronti di feti, di cui si prevede la possibilità di nascere o diventare persone disabili.

   Ciò che si rivendica è soltanto un diritto umano all’esistenza nelle condizioni e nei termini  di tutti gli altri uomini che vivono sulla Terra.

   Forse è arrivato il momento che i sistemi sociali in cui viviamo si facciano carico anche di quelle persone che presentano bisogni particolari, come le persone disabili, appunto,  senza per questo ricorrere a soluzioni estreme come l’aborto.

   La società potrebbe ad esempio garantire alle madri ed alle famiglie che aspettano un figlio o un fratello disabile reti di sostegno più solide da consentire loro (compreso il disabile) una vita più dignitosa e servizi più efficienti, atti a supportare le difficoltà fisiche, psicologiche, emotive, economiche, ecc.  di chi deve gestire quotidianamente una vita dai bisogni più complessi. In altre parole, potrebbe garantire alle famiglie maggiori possibilità e rassicurazioni di fronte al fantasma della nascita di un bambino disabile,  di fronte alla quale si è solitamente impreparati.

   Noi persone disabili ci auspichiamo di prendere parte attiva in questioni relative alla bioetica perché crediamo che nessuno più di noi può testimoniare dell’importanza di vivere la vita a qualsiasi costo. Crediamo che debbano essere favoriti in noi processi di empowerment, atti a potenziare quelle capacità che  consentano a noi come ai nostri familiari di vivere una vita di qualità, nel rispetto di quei diritti che ci vedono cittadini come gli altri.

   Centrali nelle attività di empowerment sono i consiglieri alla pari (peer counsellor) e i peer-support : persone disabili che sostengono altre persone disabili nei loro percorsi di crescita personale verso il raggiungimento di una sempre maggiore consapevolezza di sé rispetto alle proprie abilità di autonomia ed autodeterminazione, proprio come è accaduto a loro .

   La figura del consulente alla pari o del peer support può essere un valido punto di riferimento anche per quella madre e quel papà che devono prendere la decisione circa  la scelta di far nascere o meno  il loro bambino con disabilità. Questo perché egli é   la prova vivente che nonostante la presenza di impedimenti più o meno lievi, più o meno gravi, anche lui al pari delle altre persone “normodotate” ha un progetto di vita, da portare avanti e in cui credere.

   E’ importante, quindi, che venga presa in considerazione la possibilità di inserire all’interno dei servizi sanitari o dei servizi sociali figure come quella del consulente alla pari o del peer-support atte a dare tutte quelle informazioni e conoscenze in merito a questioni di disabilità, che aiutino a gestire emotivamente ma anche praticamente e materialmente la vita di relazione con la persona con disabilità; insomma  tutti quegli strumenti necessari affinché la madre e il padre non  si lascino sommergere dalla paura, che è la paura dell’ignoto, la paura di non sapere cosa fare.

   Per concludere, siamo dell’avviso che è molto importante che le persone disabili recuperino la loro vera essenza di essere umani, un recupero che va nella direzione di una trasformazione in positivo di quello che è stato definito sempre negativamente con termini quali “menomazione”, “handicap”, “disabilità”. Siamo convinti che attraverso soluzioni adeguate e interventi opportuni è  possibile liberarci da quelle paure che per troppo tempo hanno condizionato il nostro vissuto e quello di coloro che ci stanno a fianco.

   In Italia sta diffondendosi un nuovo termine che è quello di “persone con differenti abilità”. Esso  fa sperare che ci si sta avviando verso una cultura più sensibile che riconosca la nostra dignità di esseri umani,  restituendo a noi tutti quella serenità che ci  faccia fare la pace con il nostro corpo, la nostra mente, il nostro spirito!

 

                                  


II° Gruppo:

La partecipazione delle persone disabili alle scelte in materia di genetica

Relatore: Generoso di Benedetto

Osservatore partecipante: Carmelo Laganà

 

Riferimento al punto n° 2 della rivendicazione:

"La consulenza genetica sia “non orientata” basata sui diritti, ampiamente e liberamente, disponibili e rifletta la reale esperienza della disabilità".

 

1.  genetica non orientata

2. diritti umani (dudu)

3. reale esperienza dei disabili

 

presentati i set bioetica di DPI

Immacolata - Francesco Antonia - Giovanna - Graziella - Marina - Lorenzo - Maria - Concetta - Grazia - Raffaele segreteria nazionale DPI - Roberto, Catania comitato DPI bioetica - Antonella - Roberto

 

   G. Informazione di solito è per addetti ai lavori (es. volumi sul genoma umano) ma qui si rivendica il diritto ad essere informati in modo accessibile.

   In TV e sulle riviste non si trova altro che informazione orientata agli addetti ai lavori.

   R.G. informazione capillare non significa che tutti debbano diventare dei tecnici ma nemmeno essere due volte manipolati prima dalla nostra condizione e poi dalla informazione. La nostra identità…

   Mi riferisco soprattutto alle donne o comunque alla coppia che al ricevimento della notizia si butta subito senza alcuna capacità critica e spesso si rovina anche economicamente. Dobbiamo tenere presente tre livelli di approccio:

1. come deve essere offerta l’informazione alla coppia

2. gli strumenti di autodifesa della coppia

3. quali possono essere le denunce da compiere verso una informazione completamente ottusa

   G. ci riferiamo al fatto che la coppia riceve solo informazioni scientifiche e questo crea una disparità di livelli, cosa ne pensano le donne presenti come operatrici e come mamme?

   Un esempio che faccio spesso è l’offerta di empowerment attraverso l’incontro con famiglie che hanno avuto un caso simile, e questo dà un certo stimolo rassicurante, soprattutto quando si vedono casi concreti di persone realizzate nel lavoro o per esempio nella guida (anche se una volta dicevano che una persona con distrofia non può guidare) e nella vita indipendente..

   Raffaele sottolinea che l’informazione spesso è corretta ma unidirezionale

   Immacolata: Non si dà nessuna notizia sulle risposte soprattutto chi incontra il problema dall’oggi al domani, si danno risposte per toglierti di mezzo. Dopo anni di lotte ricevi qualche mezz’ora di assistenza leggera ovvero un paio di ore in cortile con un ragazzo. Un uomo di 54 anni intelligente ma non autosufficiente viene così socialmente escluso, la famiglia non viene aiutata in niente Se lo Stato desse degli strumenti adatti si farebbero scelte diverse, certe scelte eclatanti si fanno perché costretti.

   Roberto DS: questo tipo di società si comporta così a tutti i livelli dell’informazione, non solo nel campo della genetica! L’informazione viene manipolata o indirizzata prevalentemente per fini economici, questo è il nostro contesto di riferimento e i nostri problemi sono figli di questo mare.

   Ci sono situazioni che la società non vuole affrontare perché costituiscono un costo, per cui l’informazione medico scientifica ne è condizionata. L’amniocentesi per esempio è un test molto costoso, si fa quasi sempre a pagamento, ma se dieci anni fa si richiedeva una volta su cento adesso 30 su 100, fra 5 anni sarà obbligatorio… questa società non ha più al centro l’uomo in nessun caso. Si comincia a voler correggere i geni di malattie rare e fra poco arriveremo a fare i replicanti, stabiliremo che a 70 anni se non sei autosufficiente devi morire… questa prospettiva fa paura. Nei primi anni 60 già c’erano lotte fra le case farmaceutiche sul vaccino contro la polio, io ho scoperto dopo 30 anni che il vaccino usato da noi era superato perché negli USA a bambini più piccoli veniva dato un vaccino diverso ma da noi si dovevano smaltire le scorte prima di fare questo passo!

   La salute è trattata nello stesso modo delle giacenze degli elettrodomestici, la vita in generale viene posta su un terreno minato per cui trovo molta difficoltà a trovare proposte per avere più voce in capitolo in queste condizioni. Sicuramente andrebbe rafforzato un approccio politico, se lasci nelle mani dell’ambiente medico o economico queste decisioni le cose possono solo andare a rotoli.

   Imm. Stamattina il medico ha fatto riferimento alla Genesi, è come se i medici si rapportassero direttamente alla divinità. RDS sottolinea che in effetti i medici hanno sempre avuto questa tendenza perché ritengono di avere il potere di vita e di morte. Bisogna mettere in atto meccanismi politici per arginare questa tendenza, coinvolgendo la società civile per queste decisioni. Chiaramente noi dobbiamo farne parte come cittadini a prescindere dalla disabilità, io questi argomenti li vivo come persona umana.

   Francesco stamattina non è molto emerso il valore della persona umana in quanto tale, come soggetto che ha diritti – per prima cosa come società dobbiamo non solo fare questi convegni ma tirarne fuori stili di vita. L’incontro con le persone disabili è fondamentale, nell’esperienza di insegnamento ho verificato che con lo strumento giusto per poter lavorare potevamo esprimere un parere e la cosa più apprezzata è stata averli posti in condizione di essere autonomi e di dire qualcosa. La politica oggi si basa su interessi personali e strumentali, invece deve riprendere la centralità della persona umana attuando quelli che sono i principi costituzionali di cittadinanza, partendo dalla scuola.

   Raffaele: parlando di scelte si corre il rischio di fare scelte condizionate, non mi faccio condizionare nella scelta di viaggio dal fatto che il treno sia attrezzato o meno perché scelgo il viaggio.

   Imm. Dobbiamo fare la scelta per il migliore interesse del bambino, dargli un avvenire – ma che avvenire puoi dare se dietro non c’è nessuno che ti indirizzi e servizi adatti.

   G. non dimentichiamo che dobbiamo concentrarci sulla genetica perché tutti questi servizi tra dieci anni non verranno progettati perché con la nuova genetica non saremo nemmeno più qui.

   Imm. Non è riscontrabile storicamente uno stop al progresso.

   G. chiarisco che parlare di genetica per noi non significa fermare il progresso, tanti ausili dati dal progresso ci aiutano a vivere meglio. Quindi non è che “non vogliamo essere aggiustati” ma vorremmo una genetica che ci aiuti e non ci cancelli, il resto delle cose va misurato.

   Raffaele: qualche mese fa a Miracoli su Rete4 per cui una persona mi ha fermato per strada – il passante è inorridito perché non volevo essere miracolato, visto che sto vivendo una vita piena.

   Antonella è positivo che siamo qui abbattendo una barriera importante: la sala è accessibile, siamo nella possibilità di renderci partecipi. La vita la vogliamo vivere, io sono serena e contenta della vita che ho e di come sono. Dobbiamo renderci più visibili, cercare di essere più concreti e più partecipi perché la società ci porta sempre più ai margini. Importante la mobilità per poter essere visibili.

   Informazione genetica : le famiglie devono essere aiutate e non condizionate dai medici, aiuto per la scelta.

   La mia esperienza personale: lavoro come centralinista ed è un ruolo importante, è importante far vedere che ci siamo e la pensiamo in un certo modo non perché medici o altro, ma come persone che hanno il coraggio di confrontarsi con una cosa più grande di noi. Quando si chiude la porta è la coppia a decidere e non chi deve nascere né il medico, la famiglia e il suo ambiente sono quelli che ti accolgono ma la vita te la costruisci tu.

   R.G. sta uscendo una cosa che avevo quasi rimossa, qui siamo dopo Roma… a Roma non esiste questa assistenza debole, ti danno minimo minimo 6 ore al giorno. E’ evidente che qui a parte i problemi economici al sud c’è proprio un problema di cultura perché io frequento Napoli da vent’anni e da allora si parla di costituire l’assistenza domiciliare, mentre a Roma pare impossibile con tutta la disoccupazione e con la piccola estensione di Napoli….

   Io penso che solo adesso si comincia a superare la vergogna a parte alcuni casi per cui con tutta la crisi del welfare state stiamo perdendo tutto quello che avevamo conquistato. Dobbiamo fare un salto di qualità doppio: imporre la nostra presenza è uno, e poi ottenere quei servizi minimali.

   La prima idea che mi viene è di scrivere su tutti i giornali un articolo dicendo che o ci date il minimo oppure ci uccidete però siete voi ad ucciderci non noi, questo deve essere ben chiaro.

   RDS il problema è che lo farebbero!

   Imm. Ha fatto un’azione sui giornali locali e media però non si è ottenuto nulla.

   G. noi adesso stiamo combattendo per una nostra inclusione non solo a livello normativo ma per la nostra vita,

   UNA NATURA CHE NON INCLUDA TUTTE LE PERSONE (es. stamattina di una persona “disabile momentanea”) E’ UNA SOCIETA’ NON COMPLETA. IN NATURA IL CICLO BIOLOGICO COMPRENDE SOLUZIONI DIVERSE PER ESIGENZE DIVERSE.

   Riprendendo lo spunto biblico dovremmo rilanciare l’idea che l’albero della vita è una nostra proprietà e che siamo noi a dover decidere, non come in passato qualcuno si è potuto permettere di decidere di mandare persone in istituto. Quando si tratta di disabilità non diamo rappresentanza a nessuno.

   RDS Sarebbe opportuno avere un rappresentante del movimento nei comitati nazionali di bioetica.

   G. se UE ha finanziato il documento è perché riconosce che questo processo è importante. Secondo punto è passare quindi alle violazioni dei diritti umani. Non sono un cittadino di serie B per le barriere architettoniche, perché chi progetta le nostre città non riesce a fare una progettazione globale che includa tutti i cittadini, altro esempio è quello dei bambini musulmani che vengono discriminati nelle mense scolastiche – lì il Preside ha imposto la condizione e questo ha cambiato la visuale della ditta che non era disposta a cambiare menu per due soli casi.

   C’è ancora la vergogna per cui le famiglie tengono le persone disabili in casa, perché hanno avuto solo una visione medica della problematica.

   Molte volte l’assistente personale finisce con il sostituirsi alla persona che assiste, per eccesso di protezione, e questo è un errore anche se si fa con i bambini perché annulla la possibilità di vivere autonomamente – dall’episodio più banale alle scelte di vita. Così nella bioetica: c’è un inquadramento scientifico e uno etico della vicenda, e sul secondo abbiamo qualcosa da dire perché per i medici saremo sempre qualcuno da aggiustare mentre noi siamo persone che vogliono vivere la loro vita.

   Nelle nostre regioni del sud un lavoro serio di assistenza personale procurerebbe un indotto economico positivo, quindi anche il discorso economico va affrontato con un approccio positivo. L'assistenza deve essere un diritto e non solo volontariato o beneficenza.

   Operatrice Agedi noi lavoriamo con i ragazzini gravi e con le loro famiglie per promuovere la loro accettazione all’interno della famiglia e della scuola.  Di solito più difficoltosa l’accettazione degli insegnanti che degli altri alunni.

   Spesso ci accorgiamo da come parlano che le famiglie li considerano un peso e quindi cercano una complicità. Altre eccedono in iperprotezione; alcuni faticano a dimostrare concretamente quello che vorrebbero anche perché si sentono abbandonate e non sanno come gestire una situazione a cui non sono mai stati preparati, per cui si sentono in parte in colpa. Ovviamente non bisogna generalizzare, ci sono anche bambini seguiti bene e molto sereni.

   G. nel gruppo c’è un ragazzo che ha seguito tutti i corsi, è inserito, si è diplomato ma alla fine la famiglia lo tiene e lui non riesce ad emanciparsi.

   Il mio medico di famiglia era anche il presidente della commissione di invalidità per cui lui sconsigliò la madre di far acquisire la certificazione di invalidità perché mi avrebbe ostacolato sul lavoro, altre informazioni saranno state altrettanto distorte e hanno condizionato le sue scelte.

   Esempio delle terapiste in cui la genetica non ha dato nemmeno un responso utile; nella famiglia non ci sono precedenti di distrofia fino ai bisnonni quindi la familiarità non è nemmeno dimostrata.

   RG quando si parla di rifiuto: è ovvio che chiunque rifiuta una parte della vita, una parte negativa. Se fino a vent’anni fa ci chiudevano negli istituti è ovvio che la cultura era quella; visto che oggi è soprattutto la genetica che ci divide in parti anzi nemmeno in parti ma in geni in cui c’è un gene buono e uno cattivo e va eliminato quello cattivo – è chiaro che la persona si sente come tutti rifiutata ma non è un rifiuto della persona o del figlio, è un rifiuto del fallimento della madre o della moglie o della famiglia.

   Secondo me è molto importante proprio perché ci permette di prendere in evidenza che cos’è questa cultura scientifica che non considera nemmeno più una parte della persona, ma addirittura un gene come se fosse una specie di moloch che determina tutto da solo, buono o cattivo.

   E’ più semplice dare informazioni a una famiglia o a una persona con questi parametri ma quando ti dicono che tuo figlio ha un gene malato, tu sei senza difese!

   L’unico strumento è quello della nostra presenza in tutti i luoghi dove sono in gioco questi problemi, tipo ospedali, consultori eccetera.

   G. infatti il terzo punto ci dovrebbe portare alla reale esperienza della disabilità.

   Antonella la società non è più a misura di uomo ma di produzione per cui se non sei considerato in grado di produrre (anche se sei produttivo ma vieni visto così per cattiva informazione) tu sei su un binario sbagliato. Allora l’importante è come ti poni tu; noi non abbiamo un realistico obiettivo di velocità, dobbiamo avere un obiettivo innanzitutto di informazione che porti a contatto la famiglia con una situazione concreta di disabilità in modo che la coppia possa decidere. Una mamma avrà sempre difficoltà ad accettare un problema per il figlio e non ne parlerà mai fino in fondo al medico, deve essere allora il figlio disabile a insegnare passo passo come camminare insieme verso un obiettivo di soddisfazione personale, eliminando la auto colpevolizzazione dei genitori. E’ un percorso da fare nel tempo; vogliamo uscire e prenderci carico di questi problemi.

   RDS due esperienze dirette che hanno prodotto il cambiamento su questo problema della manipolazione genetica. Prima di avere figli vivevo questa cosa in maniera molto partecipe, con un atteggiamento positivo verso lo studio della genetica in generale e della possibilità di incidere sulla manipolazione, come un ulteriore passo avanti da un punto di vista scientifico. Quando ho visto la prima ecografia di mia figlia mi resi conto di aver visualizzato un esserino di pochissimi centimetri ma che vedevo muoversi come adesso vedo mia figlia giocare con le bamboline Shelly – minuscole ma complete. Cominciai a modificare il mio atteggiamento perché cominciavo a non essere insensibile al tema. Durante la gravidanza ti propongono un sacco di test ma per esempio quello sulla sindrome di Down dà solo un grado di probabilità, quindi è quasi inutile. Malsopportai tutti gli altri mesi di esami periodici perché mi rendevo conto che non sarebbe servito a nulla perché anche quando va tutto perfettamente bene, in qualunque momento del periodo della gravidanza, del parto, del post parto il rischio di un evento invalidante è sempre dietro l’angolo per cui questa consapevolezza mi fece passare con meno ansia il periodo.

   Da piccolino se mi avessero chiesto se vivere con questa disabilità o non vivere, avrei scelto di vivere comunque – anche se poi la fase di adattamento può essere più o meno facile l’istinto di sopravvivenza è fortissima. Ho tantissimi amici con disabilità e se ci fosse stata una legge che li faceva “eliminare” avrei perso un patrimonio enorme di vita umana e nessuno ha il diritto di lapidare questo patrimonio. Durante la gravidanza, da padre sono arrivato a pensare che non avrei riconosciuto quel diritto nemmeno alla madre, perché quell’esserino era già presente.

   Adesso sono molto più arrabbiato verso la manipolazione genetica (vedi sopra).

   Nel terzo mondo la polio è ancora una delle maggiori cause di disabilità e noi ci permettiamo di spendere moltissimi soldi per prevenire malattie rarissime. E’ una scelta economica perché a nessuno interessa di questi bambini, mentre i test possono essere un business e i medici restano incompetenti a dirti, se poi nasce un bambino con la sindrome di Down, che percorso sociale puoi aspettarti, perché tutti gli aspetti della vita sono medicalizzati e per il resto non c’è spazio.

   G. quando scrivevamo la dichiarazione è venuto fuori che la maggior parte delle disabilità non hanno una origine genetica!

   Raffaele a prescindere dagli strumenti e dalle informazioni l’importante è la vita per cui la medicina genetica può anche correggere dei geni ma in Italia il numero di incidenti stradali è 500.000 all’anno. La nostra società nei prossimi anni sarà multietnica e questo amplierà la complessità di informazioni, avremo bisogno di comunicare, parlarci e capirci perché siamo tutti diversi e unici.

   Da qualche mese acquisto prodotti biologicamente coltivati perché i problemi dati dall’abuso della genetica sono anche nella sfera alimentare. La nostra società si è disumanizzata negli ultimi anni e forse anche negli ultimi mesi e noi dobbiamo riuscire a viverla e ricordare a tutti che nessuno può prescindere dagli altri. Qualche anno fa abbiamo fatto nelle scuole il progetto Girotondo e la domanda più eclatante era “siamo diversi o siamo uguali” che dava il la a tutte le patologie familiari, perché è dai genitori che arrivano tutte le osservazioni che i bambini spontaneamente non hanno.

   Personalmente sottolineo l’importanza del percorso fatto con DPI che ci ha permesso di crescere come persone, nella autoconsapevolezza, mentre magari persone “normaloidi” non riescono a superare il limite culturale.

   Mi è piaciuta la pubblicità dell’auto in cui sono evidenziate le possibilità di non essere perfetti.

   Siamo tutti molto condizionati da cosa dice la tv, consapevolmente o no. Oggi è la giornata contro la Nestlè.

   RG l’unicità della persona, siamo tutti d’accordo però poi succedono queste cose assurde, se noi pensiamo che molte scoperte scientifiche sono state messe nel cassetto e poi tirate fuori dopo anni per motivi economici, il mondo è diventato una fabbrica di disabilità ma non perché è cattivo o brutto ma solo perché ha un parametro fisso che è l’economia e guarda caso l’economia non ha un dio, non ha nessuno a cui rendere conto mentre noi che abbiamo problemi morali, culturali ecc. siamo comandati da forse dio non esiste però almeno prima c’era la religione ora non c’è un senso di vita.

   Ecco perché parliamo di bioetica e non di biomedicina.

   Noi vogliamo che sia chiaro almeno fra noi che noi stiamo vivendo un periodo di solitudine che è frutto del suo contrario e cioè di un’omologazione di massa.

   Dr. Laganà: personalmente faccio diagnosi prenatale nell’unico centro che c’è in Calabria quindi ho seguito la mattinata con grande attenzione, cercando di capire meglio anche le parole forti.

   A volte le parole non sono adatte a descrivere la realtà concreta – anche se ovviamente ci sono pratiche positive o negative.

   Noi facciamo diagnosi che viene richiesta se non imposta dalla coppia, diagnosi che può anche essere terapeutica e non solo eugenetica. Le coppie non chiedono i bambini con occhi azzurri, vi posso dire che la scelta della madre che decide di interrompere la gravidanza è comunque una scelta difficile e dolorosissima che nessun esterno può alleviare, il medico può solo dare tutta la sua professionalità. Almeno il 60% delle coppie che fanno diagnosi prenatale ha all’interno del nucleo familiare un problema di salute che porta alle volte magari ad eccedere nella ricerca diagnostica; di fronte a coppie che hanno già sperimentato malattie che pregiudicano la sopravvivenza, la diagnosi prenatale è l’unica via accettabile.

   E’ vero che la diagnosi molte volte viene condotta scorrettamente ma non bisogna demonizzare la diagnosi in quanto tale, che è la strada scelta da una coppia che non cerca l’eccezionale ma cerca la normalità.

   La diagnosi prenatale abbraccia un campo enorme dalla citogenetica alla chimica alla genetica: nel primo caso conferisce una certezza quasi assoluta (ovviamente se la diagnosi viene condotta correttamente!).

   All’interno dell’associazione di genetica umana ci si batte per ottenere controlli di qualità anche su questo territorio, dove invece ci sono centri non attrezzati per cui rilevano il campione e lo inviano al service di Roma – queste prassi alimentano degli errori. La diagnosi errata di sindrome di Down può portare a un doppio errore di comunicazione (viene abortito un bambino che sarebbe stato sano, nasce un bambino Down a una coppia a cui era stato detto che il bambino era sano).

   Non è possibile dire che un bambino nascerà senza nessuna patologia genetica – dico “per fortuna” perché per esempio non è possibile diagnosticare tutte le patologie minime e ininfluenti.

   Le coppie arrivano soprattutto preoccupate dal ritardo mentale e non ci sono invece preoccupazioni per disabilità fisiche; non c’è un atteggiamento da supermarket del bambino perfetto, si cerca solo la serenità di una gravidanza tranquilla, la paura più grossa è quella di non potersi relazionare con il figlio per il ritardo mentale. Il fatto che non sappiamo ancora diagnosticare tutte le malattie non ci esonera dal diagnosticare quello che sappiamo già diagnosticare. Oggi il20% delle coppie ha difficoltà ad avere figli e la gravidanza è un momento di grande privilegio; la diagnosi per esempio di una cardiopatia congenita ci consente di salvare il feto e di evitare una anossia cerebrale.

   RDS noi non diciamo che siamo contro la diagnosi prenatale in quanto tale, ma le coppie nella gran parte dei casi non riescono ad ottenere quello per cui si recano dal consulente, e raramente può scegliere le modalità del parto, né può avere notizie sul dopo, si sentono assolutamente ininfluenti su questo momento fondamentale che non deve essere sottratto né dal medico né da nessun altro – mentre il medico decide tutto lasciando fuori sia il bambino, sia la madre mentre addirittura il padre è completamente tagliato fuori.

   Sulla diagnosi prenatale ho dei dubbi perché lo standard di qualità non è alto, l’informazione è carente e gli utenti non hanno mai voce in capitolo – non si contesta la validità del processo scientifico in sé. Lo scopo di questo seminario non è accusare ma dare voce agli interessati, come genitori come disabili e come cittadini – rarissimo che i medici siano aperti al confronto e disponibili a riconoscere l’errore, e questo pregiudica anche una serie di azioni di risarcimento.

   Si vuole quindi che la società civile sia posta in condizione di comprendere e dialogare con il mondo scientifico, perfino i nostri parlamentari sono analfabeti in materia per cui rischiano di discutere di cose che non conoscono.   

   Purtroppo è insito nell’azione scientifica il fatto che se una azione diventa possibile, viene realizzata, quindi noi subiremo tutto quello che ne deriva nel bene e nel male. L’esempio dell’antrace è lampante, ora gli americani ne patiscono ma nessuno nella gente comune sapeva che era stato predisposto questo armamentario dallo stesso governo.

   Da queste situazioni derivano le parole forti di questo seminario.

   RG se lei è d’accordo con gran parte delle cose che sono state dette qui, come spiega che tra la classe medica ci sia questa barriera di comunicazione? L’ho sperimentata personalmente qualche tempo fa anche se io ho gli strumenti per capire, ma quello che avevo a fianco non capiva letteralmente cosa stesse dicendo il medico.

   Laganà: vivendo all’interno e vivendo una situazione di privilegio per poter giudicare, vedo tanti fattori, a prescindere dalle capacità personali. Il primo fattore è che la società ci impone dei ritmi per cui il fattore tempo influisce sulla comunicazione – chi va dal medico vorrebbe soprattutto capire e questo richiede tanta disponibilità, professionalità e tempo. Nel corso degli anni mi sono accorto che i tempi disponibili sono diversi. Il medico tante volte non si rende conto dei suoi limiti e quando lo fa aumenta il numero di prestazioni ma non produce risultato perché non incontra veramente il malato, il medico diventa sbrigativo e il paziente un numero.

   I tempi sono dettati dal medico sono dettati dall’organizzazione sanitaria che impone il taglio della spesa e tante cose obiettivamente “saltano”. Alle volte però è lo stesso modo di vedere e la formazione che si è data il medico a condizionarlo, perché c’è ancora la possibilità di fare correttamente un lavoro di diagnosi prenatale che risponda veramente ai bisogni.

   E’ chiaro che la maggior parte delle coppie che fa diagnosi prenatale va a farla avendo come modello la sindrome di Down e si regola con un discorso di “più grave, meno grave” – ma non è vero che poi decide sempre di abortire, se ci sono certe condizioni. Faccio circa 50 diagnosi di possibile interruzione, e posso garantire che ogni volta la scelta è molto sofferta.

  

                                  

 


 

III° Gruppo:

Il diritto di nascere e il dovere di accogliere

 

Relatore: Pasquale Ezio Loiacono

Osservatore partecipante: Corrado Mammì

 

   Il relatore ha suggerito al gruppo quattro suggestioni su cui riflettere e su ciascuna si è sviluppato un attento dibattito, spesso legato a esperienze di vita personale e professionale:

 

1. Estremizzazione e contrapposizione delle visioni etiche rispetto alla diagnostica prenatale: Irresponsabilità dei genitori che non accettano la diagnosi prenatale e immoralità delle diagnosi prenatali in quanto tali.

 

   Intanto la ricerca scientifica deve fondarsi sulla alla prevenzione primaria, attraverso la divulgazione della metodica degli screening prematrimoniali o comunque pre-concepimento, e sulla diagnostica prenatale, eventualmente anche con interventi invasivi sul feto.

   Questa ricerca, per l’importanza che riveste, deve avere l’obiettivo di migliorare la qualità della vita di tutte le persone e non deve essere limitata da esigenze di budget o da criteri di mera efficienza.

   Inoltre, oltre al diritto di nascere, deve essere riconosciuto il diritto di far nascere, in quanto, come vedremo al punto quattro, deve essere permesso con opportuni accorgimenti ai genitori, di nutrire speranze positive, anche in presenza di sindromi specifiche o di cosiddette malformazioni. Il gruppo è convinto, con una sola eccezione, che la salute psicofisica della madre non sia effettivamente tutelata con la semplice induzione all’aborto.

 

2. Come misurare il grado di consapevolezza della coppia, e in particolare, della donna, che decide di abortire o di portare avanti la gravidanza?

 

   Gran parte del gruppo ha sottolineato come l’istituto dell’aborto rappresenti una conquista sociale e politica delle donne, soprattutto come deterrente all’aborto clandestino. Da più parte è stata comunque segnalata la sofferenza che sta dietro alla scelta, qualunque essa sia. La drammaticità legata a questo dover scegliere suggerisce la necessità di creare un sistema di protezione intorno alla gestante ed al nucleo familiare.

   E’ stato portato al gruppo l’esempio di una madre che aveva già partorito due bimbi con distrofia muscolare, che ha avuto il coraggio di condurre una terza gravidanza, anch’essa compromessa dalla stessa malattia, perché, se avesse abortito, non avrebbe più avuto il coraggio di guardare in faccia gli altri due figli. In questo caso la sua scelta è stata supportata dalla ricerca scientifica che ha suggerito la conservazione di cellule staminali, estratte dal cordone ombelicale del feto.

   Il gruppo, con questo, rileva il concetto di speranza come valore su cui costruire il destino futuro del nuovo nato e delle sue relazioni con la famiglia e la società.

 

3. La comunicazione ai genitori della presenza di menomazioni nell’embrione o nel feto, nel corso della gravidanza, tra barbarie e pietismo.

 

  E’ stato costatato da alcuni componenti del gruppo, come nei reparti ospedalieri, venga praticato esclusivamente il protocollo legato alla comunicazione della Sindrome di Down. Tutto il resto rimane affidato al buon senso ed all’umanità dei ginecologi.

    Si tratta di un’area out, che sfugge al controllo sociale, alimentato dal fatto che il dramma conseguente viene vissuto interamente all’interno del nucleo familiare.

   Inoltre, ci sembra non professionale che la classe medica, non sviluppi autonomamente procedure specifiche in questo campo, e che debbano essere appunto le associazioni a dovere offrire indicazioni o elaborare protocolli.

   In questo ambito ritorna il concetto di dare speranza, nel senso di offrire prospettive, anche se deboli e lontane, oltre ad informare puntualmente ed in termini assolutamente comprensibili, sulla malattia e sulle disabilità che potrebbero derivarne.

   

4. La cultura dell’accoglienza si costruisce giorno dopo giorno, all’interno di prassi da individuare e consolidare.

 

   Essa deve essere totale e deve prevedere una serie di strumenti in ambito territoriale, nel campo della medicina, della sanità e della società.

  Su questo aspetto ci si è soffermati a lungo ed è nata l’idea di promuovere accordi di programma tra enti corresponsabili nel processo di accoglienza, in modo che ci sia un continuum efficace tra ospedale, pediatra, consultori, e servizi sociali.

   Si propone su questo punto di approfondire la discussione per giungere all’istituzione di un network specifico.

 

                                  

 


 

IV° Gruppo:

Chi decide per i disabili psichici gravi?

 

Relatore: Giampiero Griffo

Osservatore partecipante: Giuseppe Chiofalo

 

   Il gruppo ha approfondito in particolare il punto 10 della dichiarazione europea:

 “non siano violati, con interventi medici, i diritti di quelle persone con disabilità che non sono in grado di esprimere consenso”.

 

   Gli elementi emersi dalla discussione si possono così sintetizzare:

   1. La rappresentatività di persone che non possono rappresentarsi da solo è affidata ai genitori, o in mancanza, ai parenti più stretti. Questo significa che bisogna sostenere, con formazioni e sostegni adeguati, questo ruolo di rappresentanza dei bisogni e difesa dei diritti. Infatti bisogna mettere in grado le famiglie di saper interpretare correttamente le esigenze e le capacità di queste persone e di poterne difendere i diritti e valorizzarne le risorse. Va rifiutata la rappresentatività burocratica ed impersonale, come per es. di direttori di istituti, sindaci o giudici tutelari, in quanto non garantisce una vicinanza e quotidianità di rapporti.

 

   2. Vanno valorizzate le capacità e potenzialità di queste persone laddove esse possano esprimere bisogni e saperli soddisfare. In altri termini vi sono spazi e campi di autodeterminazione possibile per queste persone che vanno sostenuti e ampliati. Il sostegno all’autonomia possibile riduce il campo di tutela e consente una crescita individuale a volte impensabile.Anche in questo campo vanno combattuti pregiudizi e stereotipi valutativi negativi, lasciando il campo alle valutazioni individualizzate.Vanno sostenuti e potenziati rapporti affettivi e relazionali ricchi e variegati. Bisogna formare adeguatamente gli operatori a contatto con queste persone sulle tematiche dei diritti umani e delle loro capacità e potenzialità.

 

   3. La tutela di queste persone deve basarsi sul rispetto dei diritti umani. E’ stato fortemente criticata la legge francese che permette di sterilizzare donne disabili non in grado di rappresentarsi da sole, in quanto, oltre a violare elementari diritti umani, si occupa delle conseguenze per altri piuttosto che del livello di cura ed attenzione. La tutela dei diritti umani deve svilupparsi in termini di rispetto della dignità ed integrità della persona, di valorizzazione delle risorse e tutela dei diritti di cittadinanza. Altro elemento sottolineato è quello di potenziare gli interventi di inclusione sociale, fonte di reciprocità e di scambio sociale e culturale. Laddove queste persone vivono nella società con adeguate tutele e buoni livelli di qualità della vita, si costruirà una società che saprà meglio tutelarli. Particolare attenzione va posto ai linguaggi differenti che queste persone usano. Aggressività e violenza sono spesso forme di comunicazione di bisogni e desideri  non soddisfatti. Il ricorso a semplificatori trattamenti farmacologici porta a mortificazione di risorse e riduzione di livelli di già limitata autonomia.

 

   4. Centrale è il ruolo della famiglia. Infatti la famiglia dovrebbe intervenire per garantire a queste persone qualità della vita e inclusione sociale. Spesso la famiglia è lasciata sola. Al momento dell’insorgenza di situazioni di disabilità, oltre ai percorsi di tipo medico curativo, vanno sviluppati adeguate attenzioni ad approcci sociali, valorizzando il ruolo delle associazioni di tutela. Vanno potenziati gli interventi di sostegno alle responsabilità familiari (a volte in termini di servizi a volte in termini di riduzione dei costi economici), in modo da favorire un ruolo attivo e collaborativo della famiglia nell’ambito della rappresentanza e della tutela di diritti.

 

   5. Quanto più si offre un trattamento rispettoso dei diritti umani e civili delle persone che non possono rappresentarsi da sole, tanto più si innalza il livello di accoglienza che la società offre a tutte le diversità. Tutelare i più deboli garantisce livelli di qualità della vita migliori per tutti.

 

   6. Vanno riformulati criteri di valutazione delle capacità e potenzialità di queste persone. La mortificazione delle risorse di queste persone infatti produce violazione di diritti umani e limita il campo degli interventi possibili. I criteri di valutazione da utilizzare piuttosto che esclusivamente clinico - diagnostici devono essere basati sulle capacità individuali, sulle potenzialità inespresse e sul livello di socializzazione ed autorappresentatività conseguito. Spesso le commissioni competenti alla valutazione di queste persone hanno una lucidità dei fini da conseguire ed una cecità dei mezzi da utilizzare. I progressi scientifici devono essere di stimolo ad un continuo aggiornamento delle procedure di riconoscimento di benefici.

 

   7. Vanno posti in evidenza al momento di scelte che riguardano queste persone non solo i costi economici che li riguardano, ma anche i costi sociali ed etici che determinati trattamenti producono. Valorizzare le diversità è un valore etico, come quello di garantire l’inclusione sociale di tutte le diversità umane. Un innalzamento del livello di attenzione e di interventi verso queste persone produce un innalzamento corrispondente dei comportamenti etici e sociali dell’intera collettività.

 

   8. Vanno potenziati gli strumenti di tutela verso queste persone. Nel campo del sostegno alle scelte che riguardano queste persone vanno introdotti strumenti innovativi come il consigliere alla pari (essi devono essere formati anche tra i genitori di persone disabili), l’amministratore di sostegno, soluzioni di accoglienza di qualità che affronti il problema di adeguati trattamenti per queste persone quando viene a mancare la loro famiglia. Va sostenuto e potenziato sul territorio il ruolo dell’associazionismo di tutela e di promozione che svolge un ruolo di orientamento positivo e di difesa di diritti.