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La nascita di un figlio con disabilità:

un evento catastrofico?

 

   L’esperienza di avere un figlio è già di per sé un elemento che altera gli equilibri presenti in una coppia e in una famiglia.

   Oggi poi la procreazione non rappresenta più un destino biologico, ma è il risultato di una scelta, in genere condivisa, e di un desiderio di autorealizzazione di entrambi i componenti della coppia.

   Intorno alla procreazione ruotano quindi molteplici fantasie e bisogni: il desiderio di prolungare la propria vita nel figlio, la speranza di un miglioramento della relazione con il partner, la voglia di trasmettere, oltre all’eredità biologica, anche la propria identità culturale.

   Tuttavia tali fantasie spesso vengono disattese quando nasce un figlio con disabilità.

   La scelta di avere messo al mondo un figlio diventa in questo caso un fattore critico.

   La relazione di coppia viene messa a dura prova.

   Spesso sorgono conflitti che compromettono la soddisfazione coniugale, amplificano un disagio preesistente o esitano in una separazione.

   Quando accadono eventi  improvvisi, traumatici e “catastrofici”, anche i sistemi familiari che sarebbero stati in grado di reagire e gestire in modo adeguato i normali cambiamenti del ciclo vitale, possono esserne sconvolti.

   

   Ma è sempre così?

   La Dr.ssa Eleonora Maino, del Servizio di Psicologia della famiglia dell’IRCCS “Eugenio Medea”, ha monitorato le diverse reazioni della persona, della coppia e della famiglia alla nascita di un figlio disabile

   Quali conseguenze ha sulle relazioni familiari la diagnosi di malattia genetica?

     Esistono differenze nelle relazioni familiari tra le famiglie con figlio disabile rispetto a famiglie con figli sani?

    Come reagiscono i genitori di bimbi con patologia rara rispetto a quelli di bimbi con paralisi cerebrale infantile?

   I risultati sono interessanti e dipendono in larga misura dal tipo di disabilità del bambino.

   Si sono riscontrate differenze notevoli tra le coppie con un figlio con patologia rara (presente quindi fin dalla nascita) rispetto a quelle con bimbi con paralisi cerebrale infantile (patologia intervenuta su bimbi nati sani).

  Nei genitori con figlio con paralisi cerebrale infantile predomina una modalità di reazione centrata maggiormente sull’emotività e meno sulla razionalità.

   Questi genitori sono più “arrabbiati”, come se il “danno” ricevuto avesse un colpevole e fosse evitabile. Spesso, purtroppo, è così: la paralisi cerebrale infantile, infatti, insorge in seguito a complicanze avvenute durante il parto, complicanze che il più delle volte avrebbero potuto essere evitate.

   E’ quindi la percezione del sopruso, ancorché involontario, a scatenare il risentimento. E’ la prevaricazione dell’uomo sull’uomo la ferita che sconvolge gli equilibri. Funziona così in molti campi della vita sociale. Anche nella famiglia.

   Quando il dolore quindi diventa tragedia?

   Quando è frutto di prevaricazione, negligenza o disattenzione.

   Diversa è la situazione per le coppie con figlio con malattia rara.

   Questi genitori, non potendo imputare ad altri la “colpa” di quanto è avvenuto, riescono ad accettare l’evento, a “farsene una ragione”.

   Sviluppano addirittura una componente relazionale migliore delle coppie con figli sani: si è evidenziata nei primi una maggiore capacità di perdonare gli errori reciproci e di esprimere al partner i propri sentimenti. Anche il clima familiare è meno conflittuale nelle famiglie con un figlio con disabilità genetica rispetto alle famiglie con figli sani.

   Come mai?

    La persona umana e la famiglia, se aiutati a comprendere, sviluppano capacità impreviste.

   Alcune persone riescono addirittura dalla tragedia della nascita di un figlio menomato a trovare la forza per una crescita a un più alto livello di maturazione.

    La diagnosi certa, dopo un’inevitabile periodo di scoramento, mette la coppia in grado di resettarsi, di trovare un nuovo equilibrio. L’indeterminatezza invece conferisce un’ulteriore precarietà alla famiglia.

   Questo dato ha delle implicazioni di notevole importanza pratica: attesta l’urgenza di una rete di centri specialistici che faccia fronte alla richiesta di diagnosi certe e che aiuti la famiglia nel difficile percorso di cura.

 

La ricerca

   Famiglie con un figlio con sindrome malformativa:

   impatto della diagnosi genetica sul genitore, la coppia e le relazioni familiari

   La disabilità a trasmissione genetica sfida la famiglia a tre livelli:

·        cognitivo, richiedendo ai familiari la capacità di comprendere l’eziologia, la prognosi e le complicanze

·        emozionale, inducendo il confronto con la nuova drammatica realtà e determinando continue preoccupazioni e incertezze collegate al timore di possibili peggioramenti

·        comportamentale, in quanto obbliga tutti i membri della famiglia a integrare nello stile di vita familiare le visite, gli orari, le cure spesso prolungate del soggetto malato

   Si possono riconoscere diverse modalità di investimento, soprattutto da parte dei genitori, nei confronti della persona affetta da disabilità:

·        un investimento “riuscito”, in cui si è trovato un equilibrio tra tendenze empatiche e operative

·        un investimento “operativo”, sbilanciato verso il fare piuttosto che il capire e il sentire

·        un investimento “empatico”, sbilanciato cioè verso un’eccessiva risonanza affettiva che paralizza ogni azione riparativa

·        un disinvestimento, un’incapacità cioè di utilizzare entrambi i canali, empatico e operativo

   Nelle madri sembra predominare la modalità di tipo operativo, mentre nei padri quella del disinvestimento.

 

Il campione

   Per la realizzazione della ricerca si sono considerati due campioni sperimentali:

- uno costituito da coppie di coniugi con un figlio di età compresa tra 1 e 16 anni con diagnosi certa di disabilità genetica e con ritardo mentale

- l’altro costituito da coppie con un figlio di età compresa tra 1 e 16 anni affetto da disabilità di origine non genetica e con ritardo mentale (paralisi cerebrale infantile)

e un campione di controllo costituito da coppie di coniugi con figli sani di cui almeno 1 di età compresa tra 1 e 16 anni.

   Tali campioni sono stati appaiati secondo una modalità caso-controllo in modo che differissero solo per:

1.      Presenza/assenza di disabilità

2.      Tipo di disabilità: genetica versus non genetica

 

Gli obiettivi

   Come già detto, i contraccolpi di una diagnosi genetica non si evidenziano solo a livello personale, ma mettono a dura prova anche la relazione di coppia.

   La ricerca si è proposta di:

1.      identificare specificità nelle reazioni dei genitori e nelle relazioni familiari in nuclei con un figlio con malattia genetica rispetto a nuclei con un figlio con paralisi cerebrale infantile

2.      rilevare gli effetti della comunicazione della diagnosi di tipo genetico sul singolo genitore e sulle relazioni familiari, con particolare attenzione alla relazione di coppia

 

I risultati

   I dati raccolti hanno evidenziato la presenza di differenze statisticamente rilevanti nei tre campioni, sia per quanto riguarda la personalità, sia per quanto riguarda le variabili relazionali.

   Personalità. Le coppie con un figlio con malattia genetica tendono a reagire agli eventi con una modalità di risposta centrata sulla razionalità più delle coppie del gruppo di controllo. Adottano in misura minore una risposta centrata sull’emotività rispetto ai genitori di bambini con paralisi cerebrale infantile.

   Inoltre è emerso, nelle coppie con un figlio con malattia genetica, il ruolo fondamentale della razionalità mentre, nel campione di coppie con un figlio con paralisi cerebrale infantile, è emersa la presenza di un’emotività meno controllata.

   Variabili relazionali.  La ricerca ha evidenziato una maggiore capacità di esprimere al partner i propri sentimenti e una maggiore capacità di perdonare gli errori reciproci da parte dei genitori con un figlio con malattia genetica rispetto ai genitori del gruppo di controllo.

   Per quanto riguarda il clima familiare è emersa la presenza di un clima meno conflittuale nelle famiglie con figlio con disabilità genetica rispetto alle famiglie del gruppo di controllo.

 

Responsabile del progetto di ricerca:

Dr.ssa Eleonora Maino

Servizio di Psicologia della famiglia

emaino@bp.lnf.it


“Le differenze dipendono dal tipo di disabilità del figlio”

Parla la Dott.ssa Eleonora Maino, responsabile del progetto di ricerca

 

1.      La diagnosi di malattia rara è un evento che sconvolge gli equilibri familiari. Come reagiscono i genitori ad un simile annuncio?

Non solo la diagnosi di malattia rara, ma un qualsiasi tipo di diagnosi che evidenzi a carico di un figlio una patologia cronica, è per i genitori e per tutta la famiglia un’esperienza carica di dolore.

   Come scrive Negrin Saviolo “i vissuti implicati in famiglie che presentano problemi di ereditarietà sono ad alta emotività e investono ciascun membro del nucleo familiare nelle parti più profonde della propria identità, quelle rappresentate dal suo patrimonio genetico. I geni guidano tutti i processi fisiologici e biochimici della vita e rendono la persona sana e funzionante: se non funzionano bene, l’intera persona è sentita come difettosa". Tali questioni si amplificano nel momento in cui ci si sente responsabili per la disabilità del proprio figlio e può succedere che dopo un’iniziale fase di shock e di incredulità, si passi ad una fase in cui emergono vissuti di rabbia, vergogna, ansia, spesso mescolati a senso di inadeguatezza e di colpa, dove l’aspetto più doloroso è il constatare che, in qualche misura, si è implicati nella malattia del figlio. Talora anche la relazione di coppia e le relazioni familiari vengono messe a dura prova e si può anche assistere allo scioglimento dei legami familiari. Molte volte, invece, i genitori, soprattutto se accompagnati in questo processo di adattamento, riescono a trovare le risorse necessarie per riorganizzare le proprie relazioni familiari salvaguardando il benessere di ciascun componente della famiglia.

 

2.      Ci sono differenze nelle reazioni tra padri e madri?

   E’ molto difficile dare una risposta univoca. Spesso le madri stabiliscono un rapporto molto stretto con il figlio disabile, all’interno del quale, in modo quasi esclusivo, gestiscono le cure e gli accudimenti necessari al bambino. Sovente tale rapporto è così stretto che le mamme faticano poi a ritagliarsi spazi propri e a concedersi di assumere anche altri ruoli oltre a quello materno. I padri sovente, sembrano più sbilanciati verso l’esterno della famiglia, sono più coinvolti nel lavoro e più preoccupati degli aspetti connessi al sostentamento della famiglia e al garantire al figlio disabile un’adeguata assistenza non solo per il presente, ma anche per il futuro.

   Dalla ricerca effettuata emerge inoltre un maggior bisogno da parte delle mogli di condividere con i mariti i propri vissuti emotivi, mentre gli uomini sembrano più sbilanciati su di un versante più razionale.

   In ogni caso, almeno a partire dai risultati della ricerca, sembrerebbe che questo non precluda ad entrambi i partner di sostenersi e, pur nelle specificità di ognuno, di avere momenti di sostegno e consolazione reciproca.

 

3.      E i fratelli?

   Le ricerche concordano nel ritenere che avere un fratello con disabilità rappresenta un evento “eccezionale”, imprevisto e non voluto che influenza profondamente non solo la relazione tra fratelli, ma anche lo sviluppo psicologico del fratello sano. Tuttavia le conclusioni sono spesso contrastanti: da un lato diversi studi suggeriscono che alcuni dei fratelli sani di soggetti disabili sono a rischio di disadattamento e di sofferenza psicologica, dall’altro alcune ricerche non confermano in modo univoco la presenza e l'entità di tali rischi, sottolineando, al contrario, anche effetti più complessi, non privi di componenti maturative.

   In effetti, una precedente ricerca effettuata presso il Servizio di Psicologia della Famiglia dell’IRCCS “E.Medea”, centrata in particolar modo sulle relazioni tra fratelli in famiglie con un figlio disabile, aveva evidenziato da un lato, la presenza di tali  componenti maturative e adattative da parte dei fratelli sani, dall’altro la capacità da parte dei genitori di assumersi in pieno la responsabilità della cura del figlio disabile, aiutando al contempo i fratelli sani ad assolvere al meglio i loro compiti evolutivi.

 

4.      Come va comunicata la diagnosi? Va detto tutto e subito o si devono usare certe cautele?

   La questione della comunicazione della diagnosi è molto delicata. Si tratta di un ambito in cui entrano in gioco diversi aspetti inerenti “cosa dire”, “quando”, “come”, “a chi” e, infine, “da parte di chi”.

   Avere una diagnosi significa per i genitori farsi una ragione del perché il proprio figlio presenti una determinata patologia, in molti casi significa poter prevedere come la malattia evolverà, significa riuscire a stabilire quali sono i percorsi d’aiuto più funzionali e anche poter identificare con maggiore precisione limiti e risorse del proprio figlio. Inoltre se la diagnosi viene data dopo svariate peregrinazioni da uno specialista all’altro, i genitori possono viverla anche come un sollievo, come possibilità per riorientare le loro risorse.

   Ma tutto questo non basta. Comunicare una diagnosi, soprattutto se è effettuata precocemente, al momento della nascita, implica non solo fornire nel modo più chiaro possibile dei concetti sulla patologia, ma significa anche prestare attenzione al fatto che i genitori sono alle prese con un momento della vita intensamente drammatico.

   In questo senso sarebbe importante gestire la comunicazione della diagnosi non come unico momento, ma come processo che coinvolga più figure professionali che sappiano da un lato fornire informazioni mediche chiare e specifiche e dall’altro garantire un accompagnamento e un sostegno ai genitori.

   Occorre inoltre sottolineare l’importanza del comunicare la diagnosi ad entrambi i genitori congiuntamente, modalità non sempre usuale nella prassi medica. Comunicare la diagnosi ad uno solo dei genitori significa infatti, da un lato lasciarlo solo in preda al suo dolore, dall’altro lasciargli l’onere di dover comunicare la notizia drammatica all’altro. Inoltre, seppur in seconda battuta, anche gli eventuali fratelli sani del bambino disabile, trovando un modo adeguato all’età, alle capacità e al ruolo da loro rivestito, devono essere messi a conoscenza delle difficoltà del fratello e aiutati a comprenderle.

 

5.      Di quale tipo di supporto hanno bisogno queste famiglie?

   Si possono ipotizzare tre diverse fasi del processo di adattamento al figlio disabile.

   Nella prima fase, che coincide con il disorientamento e lo shock per la nascita del bambino con malattia genetica, occorre aiutare i genitori a sostenersi reciprocamente e a condividere il loro dolore, dando ad esso un tempo e uno spazio in cui poter essere elaborato.

   In una seconda fase, che coincide con il superamento dello shock iniziale e, talora, con la comparsa di forti sentimenti di negazione della realtà, occorre aiutare i genitori a costruirsi un’immagine il più possibile realistica del proprio bambino, delle sue risorse e dei suoi limiti.

   In una terza fase occorre guidare i genitori nella costruzione del progetto riabilitativo del bambino, in cui essi devono sentirsi protagonisti.

   La disabilità del bambino, pur essendo un “vincolo”, non necessariamente deve rappresentare anche un limite per l’evoluzione positiva della famiglia. Infatti, nella maggior parte dei casi, i genitori di questi bambini, soprattutto se aiutati precocemente con interventi appropriati, sono capaci di attivare le loro risorse al fine di riorganizzarsi e adattarsi alla nuova realtà, diventando essi stessi la pietra angolare su cui poggiare la rete degli interventi specifici e specialistici.

 

6.      Dai risultati della ricerca emerge che in alcune famiglie con figlio malattia rara le relazioni sono migliori che nelle famiglie con figlio sano. Come se lo spiega?

   Avere un figlio con malattia rara, è un evento “eccezionale” e si inserisce in una struttura familiare che non ha nulla di specifico che la contraddistingua da altre realtà familiari. Certo, la nascita di un bambino con sindrome rara è per la famiglia un evento traumatico, provoca turbamento e disequilibrio, sovente contribuisce a modificare  le relazioni tra i membri del nucleo familiare.

   In ciascun familiare emergono priorità e valori che aiutano a dare un senso a quanto accaduto, a convivere anche con una prospettiva di limite, sacrificio e impegno, modus vivendi che, a volte, è sconosciuto dalle famiglie che non si trovano ad affrontare problematiche così dolorose. In questo senso, tra i risultati più interessanti della ricerca emerge il fatto che le coppie del campione senza un figlio disabile hanno una minore capacità di essere intimi e presenti l’uno all’altro, tanto che la principale caratteristica costitutiva dell’intimità, ossia la capacità di condividere il dolore, non rappresenta un fattore che unisce, come nelle famiglie con un figlio disabile, ma eventualità che spaventa e dalla quale si tende a difendersi.

 

7.      Avere un figlio disabile può causare la rottura di una coppia?

   Capita che gli operatori che seguono la nascita di un figlio con un difetto genetico registrino nella coppia dei genitori un incremento della conflittualità che porta ad una compromissione della soddisfazione coniugale,  ad amplificare un disagio preesistente o addirittura alla rottura del rapporto. In ogni caso non c’è un rapporto causa-effetto tra l’avere un figlio disabile e la rottura di un rapporto. Ci sono molti altri fattori che entrano in gioco. Possono essere fattori legati alla personalità di ognuno, al grado di soddisfazione del rapporto percepito prima dell’evento traumatico, al supporto trovato nella cerchia sociale o familiare ecc.

   Dai risultati della ricerca emerge che i genitori con un figlio con sindrome rara hanno un rapporto di coppia piuttosto stabile e supportato da un grado di intimità qualitativamente diverso e addirittura più profondo rispetto ai genitori del campione di controllo. In particolare emerge una maggiore capacità di esprimere e condividere con il partner valori, difficoltà e sofferenze, associata ad una maggiore capacità di perdono reciproco.

   Un altro risultato interessante è dato dal fatto che il principale fattore protettivo per la stabilità del rapporto risulta essere la capacità di valorizzare le potenzialità l’uno dell’altra, come se fosse necessario, per contrastare il fatto di essere direttamente implicati nella patologia del figlio, riuscire a scoprire nell’altro più le sue qualità che non i suoi limiti.

   I risultati ottenuti ci danno comunque utili indicazioni per l’intervento: ad esempio, sapere che, in coppie con un figlio con sindrome malformativa, la valorizzazione reciproca delle qualità e delle potenzialità di ciascuno è un importante fattore protettivo per la stabilità del rapporto può essere d’aiuto soprattutto con le coppie che stanno ancora facendo fatica.

 

8.      Quali differenze ci sono tra genitori con un figlio con malattia rara e i genitori con un figlio con paralisi cerebrale infantile?

   Le differenze sono connesse proprio al tipo di patologia cui è affetto il figlio.

   I genitori con un figlio con sindrome malformativa tendono a reagire agli eventi utilizzando una modalità di risposta maggiormente centrata sul pensiero e sulla razionalità; al contrario i genitori di bambini con paralisi cerebrale infantile tendono ad adottare una modalità di risposta più centrata sul sentire e sull’emotività.

   Del resto una diagnosi di tipo genetico mette molto alla prova componenti razionali della persona,  in quanto comporta sollecitazioni a comprendere e integrare informazioni sulla salute, sulla genetica, su leggi, concetti e calcoli probabilistici non usuali, e comporta forti sollecitazioni nell’imparare a gestire, con poche possibilità di confronto, aspetti inerenti la cura di patologie rare e spesso complesse. Al contrario avere un bambino con paralisi cerebrale infantile sollecita di più le componenti emotive legate al fatto che la patologia del bambino è del tutto inaspettata e imprevedibile. Infatti, questi genitori si trovano ad investire su di un bambino il più delle volte sano per tutto il decorso della gravidanza e poi nato, in seguito ad eventi del tutto fortuiti e accidentali, con una disabilità. Alla luce di queste considerazioni si comprende anche perché i risultati della ricerca evidenziano come il principale fattore protettivo per la stabilità del rapporto in coppie con un figlio con paralisi cerebrale infantile sia la capacità di condividere i dolori e il principale fattore protettivo per la stabilità del rapporto in famiglie con un figlio con sindrome malformativa sia rappresentato dalla capacità di valorizzare le potenzialità l’uno dell’altra.             


Quale aiuto alla famiglia?

“Un figlio disabile non vuol dire una famiglia disabile”

parla il Dottor Massimo Molteni, Neurospichiatra Infantile, Responsabile del settore di ricerca di psicopatologia dell’età evolutiva dell’Istituto Scientifico Eugenio Medea

 

 

Quali problemi devono affrontare i genitori con un bimbo disabile con  malattia genetica?

Di fronte alla disabilità il genitore si chiede prima di tutto perché e cos’è.

Il perché interroga il loro senso del vivere.

Il cos’è è rivolto invece agli esperti, alle strutture sanitarie che devono o dovrebbero dare risposte attendibili e credibili, avere cioè professionalità e autorevolezza.

Spesso ciò non capita: così, anche se sembra assurdo,  il problema maggiore per questi genitori è riuscire ad avere una diagnosi. 

Avere una diagnosi sicura significa a volte aspettare alcuni anni, in un rimpallo continuo da una struttura all’altra, senza sapere dove andare e a chi riferirsi.

Ma il vero aspetto drammatico è che in questa difficile situazione i genitori sono spesso soli: soli di fronte alle domande della quotidianità del loro bimbo che cresce, lo svezzamento, le prime parole,  i giochi, l’inserimento nella scuola, le relazioni sociali. Nella maggior parte dei casi è assente un programma di aiuto psicologico e educativo ai genitori, un piano di sostegno relazionale alla famiglia che indichi come sviluppare le risorse di auto-aiuto nella coppia e con la rete parentale e amicale.

La famiglia è o non è la prima risorsa del proprio figlio? La situazione non è certo delle più rosee.

 

 Quali sono invece i problemi legati alla cura?

La difficoltà di arrivare in tempi rapidi alla definizione della diagnosi induce i familiari a ricercare ripetute consulenze, in attesa di prognosi certe e terapie curative.

Del resto la difficoltà della diagnosi assommata alla rarità della patologia rendono l’offerta di centri specializzati sempre più difficoltosa, per intuibili difficoltà anche di tipo finanziario: creare competenze sulle patologie rare è un investimento costoso che in genere non è finanziato dal sistema sanitario nazionale o regionale.

Questa incertezza e l'evidenza del problema, in genere grave, induce nei genitori uno stato di ulteriore angoscia per l'evoluzione futura del bambino. Inoltre le ripetute ospedalizzazioni rischiano di creare  squilibri nel contesto famigliare.

In questa situazione è “quasi eroico” riuscire a mantenere da soli una dinamica relazionale familiare equilibrata.

Inoltre, le patologie genetiche neuropsichiche non hanno la possibilità di avere una “cura” risolutiva: solo una presa in carico clinica e riabilitativa può contribuire a migliorare l’evoluzione del minore e della sua famiglia.

Ma anche in questo campo poche sono le certezze e le evidenze scientifiche, e molta la confusione tra aiuti “sociali” e interventi specialistici, psicologici o riabilitativi.

E poi, come conciliare le esigenze dei genitori, le loro legittime prerogative e attese a tutela del loro figlio e le esigenze di interventi validi e veramente efficaci?

Spesso i genitori temono di essere abbandonati e cercano con ansia interventi diretti sul proprio figlio, continui e reiterati, anche quando servirebbe  un supporto di natura sanitaria totalmente diverso.

Purtroppo gli aspetti normativi che regolano la possibilità di intervenire, creano involontari ostacoli al lavoro con queste famiglie.

 

Cosa fa la Regione Lombardia per le malattie rare?

La Regione Lombardia ha recentemente individuato  presidi di eccellenza  per la prevenzione, , la diagnosi e la terapia delle malattie rare, affidando loro anche il compito del monitoraggio di tipo epidemiologico: questi presidi devono assicurare un approccio clinico, diagnostico e terapeutico  di tipo  multidiciplinare, con la disponibilità di servizi e strutture di supporto (diagnostica, laboratorio, genetica, etc..).

Il Presidio dovrebbe farsi carico, oltre che della patologia, del percorso riabilitativo del paziente nel suo insieme, considerando anche le implicazioni psicologiche e familiari.

Ma temo che ciò non sarà possibile, perché la competenza riabilitativa e di presa in carico della famiglia necessita di investimenti e di know-how tecnico non meno importante di quello genetico o biologico: investimenti e competenze non proprio diffuse nel panorama sanitario, che pure è ricco di risorse tecnologiche di eccellenza.

 

E l’IRCCS “Eugenio Medea”?

   Il nostro è un Istituto di ricerca a carattere clinico di assoluta eccellenza che si occupa da tempo proprio della riabilitazione e della gestione delle problematiche familiari e psicologiche, senza disdegnare l’aspetto di diagnosi clinica d’avanguardia. Abbiamo tecnologie e competenze di tutto rispetto anche nel campo della biologia molecolare e della genetica delle principali malattie genetiche che colpiscono l’evoluzione neuropsichica del bambino.

Purtroppo la regione Lombardia si è “dimenticata” di noi, non menzionandoci tra le strutture con competenza specifica: sicuramente una dimenticanza involontaria, a cui la regione porrà sicuramente rimedio perché da sempre abbiamo la stima dei suoi dirigenti.

E’ proprio sulla famiglia, su queste particolari famiglie,  il nostro Istituto di ricerca ha molto da dire, perché ha maturato, per una serie di “fortuite” coincidenze, una competenza unica: studiamo la famiglia con la stessa intensità scientifica dei più famosi centri di ricerca (e i rapporti anche internazionali lo testimoniano) e abbiamo la possibilità di avere in cura molte patologie rare anche su base genetica: ci troviamo così sulla convergenza di due saperi specifici, di tipo sanitario specialistico e di tipo psicologico specifico.

Non penso ci siano molte strutture in Europa con tali opportunità

 

Come affrontate il problema delle famiglie?

La famiglia è l’ambito principale dove avvengono i processi di sviluppo dell’individuo. Noi studiamo lo stato funzionale delle famiglie di soggetti disabili, con particolare attenzione alle diverse tappe del ciclo familiare  e alla relazione fraterna. Il nostro scopo è quello di mettere a punto strumenti di valutazione che consentano di descrivere i fattori che determinano le dinamiche familiari, così da individuare elementi di forza su cui  definire percorsi di intervento. A questo proposito vorrei sottolineare che nel nostro Istituto la ricerca non è mai fine a se stessa, ma è sempre applicata alla clinica: nello specifico del mio settore, la psicopatologia dello sviluppo, le ricerche hanno lo scopo primario di fornire una “mappa” che consenta di migliorare sempre i tipi di intervento che servono per il  bambino e la sua famiglia. E’ grande lo sconvolgimento degli equilibri che segue all’annuncio della nascita di un figlio disabile, ma un figlio disabile non vuol dire una famiglia disabile: sarebbe irresponsabile lasciare i genitori soli nel difficile compito che li aspetta.

E’ ormai ultimato e sperimentato su un vasto campione  un modello di valutazione delle famiglie che consente di offrire un percorso di aiuto, se necessario, secondo modalità ben precise e individualizzato nelle varie tappe del ciclo di  vita della famiglia.

Sogno di poter offrire con le tecniche che stiamo mettendo a punto la possibilità anche a questi genitori di poter essere una famiglia “naturalmente normale”

Parafrasando Brecht, “povera quella società che costringe all’eroismo per vivere la quotidianità”.

Santità e eroismo sono libere categorie dello spirito, non “necessità” per sopravvivere.

 

IRCCS "Eugenio Medea" - Associazione "La Nostra Famiglia"
Via don Luigi Monza, 20
23842 Bosisio Parini (Lc)
tel. 031 877111 fax 031 877 499
e mail: medea@bp.lnf.it
www.emedea.it

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